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Il codice del consumo e la tutela dei consumatori negli Atti Pubblici di Mutuo


Pubblicato il 16/09/2012 in "Diritto Civile"


Relazione del Notaio Minniti ad una Giornata di Studio sul tema


 

IL CODICE DEL CONSUMO ED I CONTRATTI BANCARI

 

L'entrata in vigore del codice del consumo ripropone alla nostra attenzione il tema delle clausole abusive che, dal nostro punto di vista, assume rilevanza se pensiamo al loro possibile inserimento all’interno dei contratti bancari.

 

Il tema, tuttavia, non è nuovo in assoluto.

 

Sembra, quindi, che trattandosi di argomenti già maturati, già "digeriti", una nuova trattazione possa essere superflua.

 

In realtà l'argomento è tornato ad essere attuale ed interessante, a causa della recente entrata in vigore del DLgs n. 206/2005, (Codice del Consumo), che sembra aver innovato, per qualche aspetto non marginale, la disciplina precedente e che ha riacceso il dibattito giuridico su temi già in precedenza trattati e sui quali la dottrina sembrava avere raggiunto una certa stabilizzazione teorica.

 

Il nuovo codice ha, per così dire, “smosso le acque”, ed ecco perché mi è sembrato opportuno proporre l’odierna riflessione.

 

Nell'esaminare i contratti di mutuo predisposti dagli istituti di credito, ho - di recente - riscontrato (ma anche a voi sarà successo) elementi di novità, ossia clausole prima non previste ed oggi inserite, anche sulla spinta di interpretazioni discutibili da parte dell'Amministrazione Finanziaria: (e mi riferisco alle clausole sul recesso anticipato ad opera del mutuatario), ovvero clausole già prima inserite ma che oggi, alla luce di una qualche novità normativa, introdotta dal codice del consumo, non sembrano più così pacifiche e tranquillamente ammissibili (ed intendo riferirmi alla clausola di rinuncia, da parte del consumatore, all'informazione precontrattuale o alle clausole di modifica unilaterale delle condizioni economiche applicate al mutuo).

 

Avendo, così, intuito che “qualcosa” doveva essere cambiato, con la difficoltà operativa del lavoro quotidiano, ho tentato di trasferire il mio personale livello di consapevolezza, ad un livello superiore rispetto a quello della semplice intuizione, non senza incontrare difficoltà e sensazioni di incertezza.

 

L'approccio al presente approfondimento mi è stato, perciò, estremamente utile per far risalire la conoscenza delle norme in discussione, da un piano ancora nebuloso ed incerto ad un livello superiore, ove chiarezza e la consapevolezza potessero consentirmi di operare nel quotidiano con assoluta sicurezza, come la nostra professionalità impone, potendo attuare appieno la funzione di adeguamento che ci è propria.

 

Ho tentato, perciò, di realizzare un elaborato dal taglio eminentemente pratico, anche se l'aspetto teorico non può essere trascurato perchè un operatore di diritto, in quanto manovratore di norme, devo conoscerle con assoluta sicurezza, per essere certo di adoperarle nel modo più corretto e - dal nostro peculiare punto di vista - dal punto di vista notarile - nel modo che l'ordinamento ci impone e cioè in funzione antiprocessuale, super partes, senza nessuna sottomissione a poteri (economicamente) forti.

 

Penso che tutti noi rifuggiamo dall’avere un approccio acquiescente in relazione a testi che, elaborati da istituti di credito, non possono certamente essere accettati acriticamente, per il timore di non essere, noi stessi, accettati dagli istituti in quanto notai scomodi e poco inclini a subire la prepotenza del contraente forte e, pertanto, questa mia relazione ha lo scopo pratico di dare una riordinata e, se ci riuscirò, fornire una schematizzazione alle norme introdotte dal codice del consumo, utilizzando le nozioni acquisite come guida per valutare le clausole dubbie che prima ho elencato e per poter avere un corretto approccio comportamentale, tutte le volte che si possano presentare altre clausole, per così dire, “sospette”.

 

Anzitutto bisogna capire perchè clausole "abusive" e non "vessatorie"?.

 

La differenza non è solo terminologica, a mio avviso, anche se molti continuano ancora a parlare, indifferentemente, di clausole abusive e vesstorie come se avessero la medesima natura.

 

Sul punto il nuovo codice del consumo non sembra aver apportato elementi di novità.

 

La dottrina ha convenuto nel riconoscere alle clausole "abusive" e cioè quelle già trattate dagli articoli 1469 bis e seguenti del c.c., la natura di legge speciale successiva, rispetto alla normativa di legge generale precedente, e che riguarda le vere e proprie clausole "vessatorie", disciplinate dagli articoli 1341 e 1342 c.c.

 

La dottrina aveva raggiunto l'opinione secondo la quale bisognava riconoscere la possibilità di una applicazione simultanea delle due leggi, con il conseguente riconoscimento che ciascuna di esse soggiace a principi propri e che la trattazione ermeneutica dell'una non può confondersi con quella dell'altra.

 

Questa ricostruzione dottrinale, però, soffriva molto della contemporanea collocazione delle norme che disciplinano le clausole "abusive", anch'esse contenute nel codice civile, che è considerata fonte generale.

 

In sostanza, la migliore dottrina faceva violenza a se stessa quando considerava normativa speciale quella degli articoli 1469 bis e seguenti (clausole abusive), rispetto alla normativa generale di cui 1341 e 1342 c.c. (clausole vessatorie).

 

Oggi, invece, con l’entrata in vigore del codice del consumo, possiamo notare due elementi principali che, di impatto, rendono il quadro differente rispetto al passato:

1) la nuova collocazione delle norme a tutela del consumatore al di fuori del codice civile;

2) la statuizione di nullità in luogo della pregressa inefficacia.

 

Per comprendere bene gli elementi di novità introdotti, è necessario evidenziare schematicamente la nuova normativa per poter capire cosa è realmente cambiato rispetto alla precedente, rispetto alla quale si era raggiunto un certo grado di consapevolezza.

 

 

Orbene, bisogna cominciare con il dire che la normativa a tutela del consumatore è stata introdotta dal nostro ordinamento con l'art. 25 legge 6 febbraio 1996 n. 2 che ha attuato la direttiva comunitaria n. 93/13/CEE del 5/04/1993. La scelta del legislatore fu quella di innovare il c.c. arricchendolo degli articoli da 1469 bis a 1469 sexies.

Successivamente, con una disciplina molto più articolata ed organica, l'attuale codice del consumo ha raccolto in sè tutti i principi a tutela del consumatore ed ha espressamente (come detto all'art. 143) abrogato gli articoli corrispondenti del c.c.

 

Sia detto per inciso: sono assolutamente imprecisi, senza dubbio non eleganti, tutti i rinvii che, ancora, nei testi dei mutui circolanti, vengono fatti sia agli articoli abrogati del c.c., sia alla legge 2/96, tutte le volte che si intende fare riferimento alla normativa a tutela del consumatore!

Oggi è l'art. 3 del DLgs che lo definisce e non più l'art. 1469 bis c.c.!

Purtroppo, i mitici uffici legali non sono così efficienti come i nostri direttori "fantozzianamente" ritengono.

Personalmente, impongo il richiamo corretto alla nuova normativa; richiamo accolto con un perplesso inarcamento di sopracciglia e, a volte, con qualche resistenza.

 

Tornando al nostro tema, occorre chiedersi: cosa ha significato l'introduzione del Codice del Consumo?.

 

E' stato riconosciuto dallo stesso legislatore che le norme a tutela del consumatore erano, prima, impropriamente disciplinate nel codice civile, considerato quale fonte di diritto generale, mentre sede più idonea hanno in una legge speciale; con tutte le conseguenze rilevati in ordine all'interpretazione, alla rilevanza che deve darsi al tempo della loro emanazione ed alle differenze che sussistono tra clausole vessatorie (disciplina generale) e clausole abusive (disciplina speciale).

E ciò è confermato dall'attuale art. 1469 bis del c.c. che sostituisce il precedente e che recita: "Le disposizioni del presente titolo si applicano ai contratti del consumatore ove non sono derogate dal codice del consumo o altre disposizioni più favorevoli per il consumatore".

 

Quindi si stabilisce la prevalenza della legge speciale su quella generale.

Ma tale prevalenza è realmente utile per il consumatore?

E dal nostro punto di vista: il nuovo quadro, che andremo a delineare, in cosa ha inciso praticamente sul nostro operere quotidiano?

 

Studiando l'argomento mi sono fatto l'opinione che il codice del consumo, pur valido in tantissimi aspetti, che però sono estranei all'attività notarile, quando ha affrontato i temi formali, quando ha trattato il tema delle clausole che volevano essere di tutela per il consumatore, ha, invece, affievolito la reale tutela che già il nostro codice civile realizzava con gli articoli 1341 e 1342, disciplinanti le clausole vessatorie.

 

E' mia personalissima opinione, per parafrasare Rino Tommasi, che, per la voglia di inseguire il nuovo, il moderno, ..... per l'inguaribile esterofilia che ci affligge, .... per un malinteso senso di inadeguatezza che ci prende di fronte al fascino della Common Law, il nostro legislatore abbia piegato la nostra millenaria cultura giuridica fino ad accogliere istituti e normative non proprio coerenti e, alle volte, veramente criticabili:

mi riferisco alla "società unipersonale", che è una vera e propria contraddizione in termini (sia logici che giuridici); mi riferisco ai recenti "prestiti vitalizi ipotecari", che imprigionano, in una inutile gabbia normativa, in un negozio tipico, quel che poteva essere frutto della semplice autonomia negoziale;

mi riferisco, appunto, al sistema di tutela delle clausole abusive, che ha inteso sovrapporsi (limitatamente alla tutela del consumatore) al sistema da noi tradizionalmente utilizzato con le clausole vessatorie.

 

Dal confronto tra i due sistemi, ne scaturisce una normativa che, nelle ideali finalità, vorrebbe essere più restrittiva e più garantista ma, per come è scritta, finisce per essere solo rigidamente formalistica e, in definitiva, offre minori garanzie di tutela rispetto a quanto non ne offra la disciplina generale sulle clausole vessatorie.

 

Quando parlo di garanzia tradizionale intendo riferirmi alle garanzie che l'ordinamento offriva proprio con l'intervento del notaio in funzione antiprocessuale. Vedremo come questo intervento risulta ora di molto affievolito, spostando tutte le tutele dal piano sostanziale e dal piano contrattuale a quello processuale, in pieno stile Common Law.

 

Dobbiamo, però, restringere il discorso: dall'applicazione generale sui contratti, all'applicazione al particolare contratto che ci occupa e cioè l'atto pubblico.

 

Partiamo, allora, dall’esaminare la posizione della giurisprudenza e della dottrina in ordine al rapporto clausole vessatorie\atto pubblico.

 

La giurisprudenza abbia sempre visto con estremo favore l'intervento del notaio, anche in presenza di clausole vessatorie.

La più recente Cassazione che si è occupata del problema è la n. 17289 del 28/08/2004, che non fa che confermare che nell'atto pubblico non è assolutamente necessaria la formalità della doppia firma perchè la forma dell'atto pubblico esclude la predisposizione unilaterale delle clausole contenute nell'atto o in esso richiamate e l'intervento "chiarificatore" del notaio è sufficiente per una ponderata valutazione delle clausole, senza necessità dell'apposizione formale della doppia firma.

Quindi, la giurisprudenza vede con favore l’intervento del notaio che, di fronte ad una clausola vessatoria, ha il compito professionale di soffermarsi, spiegarla, farla ponderatamente accettare o rifiutare.

 

Leggermente diversa la posizione della dottrina che, sia pur confermando il ruolo attivo del notaio, che deve comunque svolgere una corretta attività consultiva, dal punto di vista formale ritiene ancora necessaria l’apposizione della doppia firma:

la dottrina ritiene che l'art. 1341 comma 2°, che non distingue l'ipotesi in cui il contratto sia redatto in forma privata da quello in cui sia redatto in forma pubblica, debba trovare comunque applicazione in tutte quelle ipotesi in cui, pur in presenza di atto pubblico è noto, ed è di fatto accertato, che si tratta pur sempre di un contratto per adesione.

 

E' il caso dei mutui!

 

Non è scandaloso affermare che, pur essendo un atto ove il notaio presta la propria opera, dirigendo la compilazione dell'atto e trattando durante la pubblicazione dello stesso tutte le clausole, anche quelle vessatorie, si tratta pur sempre di un contenuto negoziale dove prevale la volontà del contraente forte, alla quale si adegua il contraente debole.

Il notaio accoglie la volontà espressa dal contraente forte e, se trova l'adesione del contraente debole, stipula senza nulla innovare.

 

Il sistema di tutela previsto con le clausole vessatorie ruota intorno al concetto di riconoscibilità delle stesse, quasi una autodenuncia effettuata dal contraente forte; in assenza della quale le clausole sono definitivamente inefficaci.

Ed allora – sempre che non si tratti di una clausola palesemente contraria alla legge, con ciò comportando la violazione dell’art. 28 LN – o la clausola vessatoria viene riconosciuta e segnalata come tale dallo stesso istituto mutuante e, quindi, come una clausola su cui accentrare l’attenzione, oppure – in assenza di segnalazione -sulla stessa si può tranquillamente sorvolare, sottovalutandola, poiché sia il notaio rogante che la controparte sono stati messi in condizione di non riconoscerla quale clausola vessatoria, con la conseguente inefficacia della stessa.

 

In altri termini, non conviene all’istituto bancario minimizzare l’esistenza stessa delle clausole vessatorie, non rimarcandone la natura per non attirare l’attenzione della controparte. Conseguentemente, questa forma di autodenuncia, rende agevole il compito del notaio nella ponderata accettazione della clausola stessa.

 

La diversa posizione della dottrina e della giurisprudenza è, allora, nel diverso ruolo dato al notaio:

  • secondo la dottrina questo dovrà accentrare l’attenzione, e far doppiamente sottoscrivere, solo sulle clausole autodenunciate come abusive;

  • - secondo la giurisprudenza, il ruolo del notaio è più pregnante, dovendosi spingere, quale reale interprete della volontà delle parti, fino a riconoscere se si sia in presenza di clausole vesatorie da spiegare e far ponderatamente accettare, o di clausole contra legem, da far eliminare totalmente, ostandone l’art. 28 L.N.

 

In questo quadro che, lo ricordo ancora una volta, è il quadro classico che ci si presenta con riferimento al sistema di tutela offerto dalle clausole vessatorie, il ruolo del notaio sembra sminuito, ridotto com’è ad una mera spiegazione e ponderazione delle clausole vessatorie predisposte, volute ed ottenute dal contraente forte.

 

Ma questa è solo una visione superficiale.

 

E’, invece, oltremodo opportuno rimarcare l'importanza dell'intervento del Notaio anche in questo tipo di atti, considerati pur sempre di adesione.

L'importanza dell'intervento del Pubblico Ufficiale va rimarcata:

a) sia a livello istituzionale - sottolineando l'importante contributo della dottrina notarile, che fa pressione per una corretta applicazione di tutta quella massa di nuove norme di tutela e di trasparenza che - invece - gli istituti di credito sono portati a minimizzare o a interpretare in modo restrittivo, continuando a produrre bozze contrattuali contra legem, alle volte al limite del ridicolo (vedasi recente vicenda Antonveneta);

b) sia a livello individuale, sottolineando l'importanza dell'intervento di ogni singolo notaio che è chiamato a tradurre in pratica gli indirizzi dottrinali, contro le resistenze degli istituti e le manchevolezze - più o meno volute - degli uffici legali.

 

L'intervento del notariato e del notaio, in funzione di vero adeguamento, quanto più diviene pressante, vero ed efficace, e senza sottomissione alcuna, tanto più viene percepito dalla clientela e dell'opinione pubblica come il vero valore aggiunto dell'intervento notarile, in quello che molti considerano una mera certificazione su un contratto per adesione.

 

Tornando al tema prettamente giuridico, quel che qui interessa dire è che il nostro sistema giuridico classico, basato sulle norme che regolano il funzionamento delle clausole “vessatorie”, permette al notaio di individuare con certezza le clausole vessatorie stesse (“autodenunciate”) e di poterle affrontare, chiarendole e discutendone.

E ora? Con l’introduzione delle clausole “abusive”?

 

Abbiamo prima visto come clausole “vessatorie” e clausole “abusive” siano ontologicamente diverse e soggette a diversa disciplina. Abbiamo visto come sia stato statuito che il sistema di tutela, posto dalle norme sulle clausole vessatorie, possa continuare ad essere applicato se non espressamente derogate dal codice del consumo o sostituito da altre disposizioni più favorevoli per il consumatore (1469 bis c.c.).

Quindi, se una clausola è denunciata come “vessatoria” si applica la relativa disciplina.

Se non è denunciata come vessatoria: o diviene inefficace, in quanto non doppiamente sottoscritta (posizione della dottrina) o è comunque efficace perché contenuta in atto pubblico e, quindi, fatta propria e voluta, per definizione, da entrambi le parti (posizione della giurisprudenza).

 

In questo quadro si innesta il nuovo sistema di tutela posto dalle clausole abusive, con il quale si vorrebbe offrire una tutela maggiore e più pregnante.

 

Vedremo come, non nuovo quadro, che si aggiunge e non si sostituisce al sistema delle clausole vessatorie, il ruolo del notaio sia realmente marginale in quanto reso veramente difficile dal legislatore, condizionato ed appiattito sul sistema anglosassone.

 

Ed allora, il sistema previsto per la tutela del consumatore, al di là della previsione sulla nullità, previsione nuova e terrorizzante e che sembra fare propendere per una più profonda tutela e sulla quale torneremo, il sistema per la tutela, dicevo, si basa su una serie di previsioni che, di fatto, vanno a far scemare, e di molto, la tutela stessa.

 

Tanto fumo e niente arrosto.

 

L'attività del notaio diventa marginale; lo stesso è posto nell’impossibilità di operare una valutazione, proprio perchè la valutazione delle clausole abusive prescende del suo contenuto normativo, logico-giuridico, e travalica nell'ambito delle opportunità degli assetti contrattuali.

 

Una clausola, oggi, è da considerarsi abusiva solo se produce uno squilibrio dell'assetto di interessi a vantaggio del professionista ed a scapito del consumatore.

 

D’ora in poi, attenzione, utilizzando la terminologia del legislatore, quando parlerò di “professionista” non intenderò riferirmi al notaio rogante, bensì al cd contraente forte: “professionista” contrapposto a “consumatore”.

 

Riprendiamo: una clausola, oggi, è da considerarsi abusiva solo se produce uno squilibrio dell'assetto di interessi a vantaggio del professionista ed a scapito del consumatore.

E non solo un semplice squilibrio, bensì pure "un significativo squilibrio".

 

Il che vale ancora di più a restringere la portata intuitiva dello squilibrio stesso, in funzione anti-processuale, ed a trasportare sempre di più la valutazione dell'assetto di interessi verso una soluzione giudiziale.

Il tutto in stile " Common Law" e non "civil law".

 

In questo quadro, è assolutamente impedito al notaio poter efficacemente operare una valutazione ex ante delle clausole controverse, perchè non è compito del notaio operare una valutazione sull'esatto equilibrio del contratto che, se pur squilibrato, può essere voluto.

 

Ma, in ogni caso, non basta che l'assetto sia - allo stesso tempo - squilibrato e non voluto, deve pur essere "significativamente " squilibrato!.

 

Questa appena illustrata è la norma generale che riguarda ogni tipo di clausola, dal contenuto non tipicamente predeterminato.

 

Vi è poi un livello superiore, che sembrerebbe operare un tentativo di semplificazione; infatti, sono stati previsti due elenchi di clausole abusive:

la lista grigia (art. 33 del cod. cons.)

e la lista nera (art. 36 del D.Lgs).

 

Cioè due elenchi di clausole del contenuto tipicamente predeterminato. Si potrebbe pensare, allora, che il notaio debba fare attenzione ai paradigmi offerti, dovendosi astenere dal ricevere atti che contengono quel genere di clausole, stante la prevista nullità.

 

Vedremo che così non è.

 

La lista nera sembra prevedere una disciplina più rigida (presunzione assoluta di abusività e inutilità dell’eventuale preventiva trattativa).

 

Per le clausole contenute nella lista grigia è stato stabilito che, senza bisogno di indagare l'equilibrio contrattuale risultante, le clausole ivi contenute sono vessatorie ma ........ fino a prova contraria.

 

E qui si ripropone l'aspetto processuale che mette fuori gioco il notaio e la sua funzione e, in definitiva, la reale tutela del consumatore.

 

Pertanto è possibile che clausole contenute nella lista grigia non siano in concreto vessatorie, anche se le si presumano tali fino a prova contraria e comunque (terzo elemento di affievolita tutela, nonostante le apparenze) sono vessatorie solo se non sono state oggetto di trattativa individuale.

 

Ma forse è utile ricapitolare il sistema, per fare chiarezza, e così si capirà perchè, come la vedo io, la tutela del consumatore è, di fatto, affievolita.

 

Abbiamo 3 livelli:

 

1° livello: sono vessatorie le clausole (tutte, non solo quelle tipiche) che determinano un significativo squilibrio (non economico) nei diritti e negli obblighi derivanti dal contratto. Quindi bisogna fare riferimento non agli interessi economici ma ai contenuti normativi e giuridici del contratto stesso.

2° livello: si presumono abusive quelle clausole contenute nella lista grigia (art. 33), ma fino a prova contraria e se sono state oggetto di trattativa individuale.

In questa ipotesi, cioè, è indifferente indagare lo squilibrio. Tale squilibrio si presume, ma la clausola resta valida se è stata oggetto di trattativa individuale e fino a prova contraria. Cosa significhino queste due condizioni lo vedremo in seguito.

3° livello: nonostante l'eventuale trattativa privata, sono comunque vessatorie le clausole contenute nella lista nera (art. 36). E qui nulla si dice in ordine alla prova contraria.

 

Come è evidente, per questa breve lista nera, di soli tre casi, si pone il problema della prova contraria.

In assenza di previsione, si può dare o no?

Si tratta di presunzione relativa o assoluta?

O meglio: è veramente assente la previsione della prova contraria anche per le clausole disciplinate (lista nera) dall'art. 36 del Codice del consumo?.

 

Volendo tentare una interpretazione, non si può non ricordare come l'attuale formulazione non sia altro che una trasposizione letterale della direttiva comunitaria, che non brilla per chiarezza. Da ciò è disceso un evidente errore, un difetto di coordinamento legislativo nella redazione finale delle norme di attuazione delle direttive;

 

infatti le tre clausole contenute nella lista nera sono pure contenute nella lista grigia.

 

Come è possibile che siano - allo stesso tempo - assoggettate a due discipline diverse?

 

Data l'evidente disarmonia, prima dell'entrata in vigore del codice del consumo, si era portati a ritenere che si trattasse proprio e semplicemente di un difetto di stesura e che, comunque, le tre clausole, già contenute contemporaneamente nell'art. 1469 ter (oggi 33) e nell'art. 1469 quinquies (oggi 36), fossero assolutamente inefficaci.

Con presunzione assoluta, cioè, (e non relativa), senza possibilità di dare prova contraria.

 

Ricapitolando, secondo la dottrina previgente al nuovo codice del consumo:

a) è abusiva qualsiasi tipo di clausola che realizza uno squilibrio sfavorevole al consumatore;

b) lo sono le clausole tipiche di cui al 1465 ter c.c. (oggi 33 D. Lgs), solo se non sono state oggetto di trattativa individuale e solo se non si offre la prova contraria;

c) lo sono le clausole di cui al 1469 quinquies (oggi 36 D.lgs), anche se sono state oggetto di trattativa e senza possibilità di prova contraria.

 

Questo lo stato della dottrina prima della novella.

 

Tuttavia, ed ecco la novità, il legislatore è tornato sulla materia, ha abrogato gli articoli 1469 ter e quinques, ha riproposto le norme agli articoli 33 e 36 del D.Lgs ed ha rifatto "l'errore" di ricomprendere le stesse ipotesi contenute nella lista nera in quelle già contenute nella lista grigia.

 

Allora, è vero errore?.

 

L'interprete, di fronte ad una ostinata reiterazione, deve escluderlo e deve trovare una giustificazione sul perchè, di nuovo, ipotesi già compiutamente disciplinate dall'art. 33, sono trattate anche dall'art. 36, con una diversa disciplina.

 

Non trattandosi di errore, se ne deve dedurre che si tratta di una disciplina speciale.

 

Si è, cioè, voluto dire: queste clausole - da 1 a 20 – contenute nell'art. 33, sono vessatorie se non se ne dà la prova contraria e sempre che non siano state oggetto di trattativa, ma si badi bene che tre particolari clausole, quantunque oggetto di trattativa, si presumono vessatorie, fermo restando la restante regola prevista dall'art. 33 (nella quale le stesse tre clausole sono pure contenute) della prova contraria.

 

In altri termini, anche per le clausole elencate nell'art. 36 (lista nera) sussiste solo una presunzione relativa di vessatorietà e deve abbandonarsi la semplicistica soluzione offerta delle precedente dottrina, che propendeva per la presunzione assoluta (fondandosi sul presunto difetto di coordinamento) e bisogna, invece, ammettere che si tratta, anche in questo caso, di presunzione relativa.

 

In ogni caso, è il professionista che deve fornire la prova contraria.

 

In cosa consiste questa prova contraria?

 

Il professionista, se la clausole è contenuta nell'elenco art. 33 (lista grigia) o 36 (lista nera), e, solo in quest'ultimo caso, anche se è stata oggetto di trattativa individuale, può comunque provare che la stessa non opera alcuno scompenso, cioè non altera gli equilibri contrattuali;

in definitiva può provare la clausola in contestazione è stata ritenuta e stipulata a fonte di particolari vantaggi per il consumatore, idonei a superare lo squilibrio che, altrimenti, si sarebbe generato.

 

Il quadro di riferimento della tutela del consumatore è dunque il seguente:

dal punto di vista del consumatore: egli può tentare di dimostrare che una clausola è abusiva:

1) qualsiasi clausola: se dimostra che altera l'equilibrio contrattuale;

2) non è necessario che dimostri lo squilibrio se è clausola contenuta nella lista grigia e se dimostra che non è stata oggetto di trattativa individuale;

3) non è nemmeno necessario che dimostri l'assenza di trattiva individuale se è clausola che rientri nella lista nera.

 

Al contrario, dal punto di vista del professionista, verso cui è ribaltato l'onere della prova, questi può difendersi:

  1. verso qualunque clausola se dimostra non non altera l’equilibrio contrattuale o che, comunque, non si tratta di squilibrio rilevante;

  2. se si tratta di clausole ex art. 33, contestando la prova secondo la quale non vi sarebbe stata trattativa individuale e contestando il presunto squilibrio e comunque uno squilibrio rilevante!

  3. se si tratta di clausole contenute nell'art. 36, al professionista non basterà dimostrare la presenza di trattativa, anzi sarà proprio inutile affrontare l'argomento, perchè - trattativa o no - la clausola è invalida; egli dovrà, invece dimostrare l'assenza di rilevante squilibrio.

 

La differenza dunque è tutta nell'onere della prova:

tocca al consumatore dimostrare lo squilibrio (qualunque clausola) o l'assenza di trattativa (lista grigia) o non dimostrare proprio niente (lista nera).

Tocca, invece, al professionista dimostrare, nel solo caso della lista nera, l'assenza di squilibrio.

 

E' di tutta evidenza, allora, come tutto sia posto non sul piano astratto ma su quello concreto.

Non sul piano contrattuale e ideale ma in quello che può processualmente provarsi e, quindi, tutto si sposta sul piano giudiziale.

Si sminuisce quasi totalmente la tutela preventiva che il notaio può dare al contraente debole, prima e fuori del contratto, proprio perchè non è possibile - aprioristicamente - operare una valutazione dei contenuti delle singole clausole, nel contesto della complessiva operazione economica.

 

Anche il concetto di trattativa individuale, prevista come sistema di garanzia per il consumatore, è stato trattato in modo pedestre dal legislatore comunitario e pedissequamente riprodotto dal legislatore nazionale.

 

Anche questa volta nel D. Lgs. si è ripetuto lo stesso impianto così com'era nel c.c., agli artt. 1469 bis e seguenti.

 

Anche questa volta il legislatore nazionale ha mancato l'opportunità di migliorare la normativa, facendole raggiungere gli obiettivi sperati, ed ha, invece, realizzato, riproducendo con evidente superficialità il dettato scritto dal legislatore comunitario, una vera e propria trappola a danno del consumatore, beffato più che protetto.

 

 

Affermando che alcune clausole possono essere considerate abusive se non sono state oggetto di trattativa, sembra che il legislatore sia riuscito a tutelare realmente il consumatore, a cui fu concesso un potere contrattuale paritario rispetto a quello del professionista.

 

Sembra! Ma non è così!.

 

L'art. 35 comma 5° del codice del consumo, offre uno spunto chiaro su cosa il legislatore veramente intenda per "trattativa".

 

A tal proposito mi rifaccio ad una lucidissima analisi del collega Chiostrini, di cui condivido il pensiero:

 

“L’art. 34, comma 5, del codice del consumo afferma che: “Nel contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, incombe sul professionista l'onere di provare che le clausole, o gli elementi di clausola, malgrado siano dal medesimo unilateralmente predisposti, siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore".

 

Questo importante comma suggerisce un fatto fondamentale: la predisposizione unilaterale della clausola - e il fatto che questa clausola unilateralmente predisposta sia inserita in contratto senza modificazioni - non importano necessariamente l’assenza di trattativa individuale, anche se impongono al professionista l'onere di provarla.

 

In altre parole, il sistema del codice del consumo configura clausole che possono essere contemporaneamente "unilateralmente predisposte" e "oggetto di trattativa". Perchè questo abbia senso, è evidente la necessità di una qualificazione corretta del concetto di trattativa.

 

"Trattativa" in questione, non è il negoziato nel quale (anche) il consumatore abbia modificato e adottato alle proprie esigenze il testo contrattuale; è il negoziato nel quale sia stato sottoposto al consumatore il programma contrattuale, facendogli valutare i vincoli assunti e le condizioni ottenute, anche se allo scopo viene usato uno strumento giuridico standardizzato, unilateralmente predisposto e sistematicamente adottato dal professionista.

 

In questo caso, verosimilmente, il consumatore valuterà l'adesione a un programma giuridico standard sulla base delle condizioni economiche ottenute, ma senza che questo comporti di dover ritenere il testo "non contrattato" perchè "non prodotto" anche dal consumatore.

 

Solo adottando un concetto di "trattativa" di questo tipo, infatti, è possibile ricondurre a logica un sistema contrattuale (configurato dalla legge) nel quale talune clausole siano state unilateralmente predisposte, inserite in contratto senza modifiche (ovviamente, se non il problema non si porrebbe) e tuttavia devono considerarsi come oggetto di trattativa specifica.

 

In questo caso evidentemente sarà stata una trattativa, non diretta a mettere in discussione il testo contrattuale ma piuttosto a farne valutare al cliente il senso, l'opportunità, e il sistema di benefici e oneri ai quali il testo fa accedere.

 

Una trattativa che tende all'informativa.

 

Una trattativa nella quale la possibilità di incidenza del consumatore, probabilmente si restringe ai fattori economici. Ma comunque una trattativa che, se provata dal professionista, produce gli effetti di cui all'articolo 34, 5° comma, codice del consumo, eliminando, di per sé, l'eventuale vessatorietà delle clausole, anche appartenenti alla lista grigia.

 

In definitiva, quindi, e per i motivi espressi sopra,

1 - "trattativa specifica" non equivale a "creazione congiunta del testo contrattuale";

2 - la trattativa specifica non è incompatibile con la contrattazione seriale e standardizzata;

3 - la trattativa specifica non può prescindere dall'informativa specifica.

4 - la trattativa specifica non postula l'incidenza del consumatore sulla clausola o su ogni clausola. E' concepibile (e anzi frequente) che il contraente accetti sistematicamente molte delle clausole concentrando la sua attenzione solo su alcune, e in genere su quelle che veicolano le condizioni economiche".

 

Quindi non si tratta di vera trattativa, bensì di semplice "trattazione".

 

Se gli argomenti sono stati comunque trattati (e non "contrattati") allora il “professionista” è salvo!

E durante la lettura dell'atto pubblico non c'è dubbio che, per definizione, gli argomenti sono certamente tutti trattati e la tutela del consumatore, oltre che al livello processuale – come sopra detto – se la si vuole dare a livello antiprocessuale, come il Carnelutti vuole che sia la nostra funzione, la tutela, dicevo, sta proprio nella qualità di tale trattazione, qualità che può cambiare da notaio a notaio, e sulla quale siamo tutti chiamati a soffermarci per offrire il massimo del nostro reale valore aggiunto.

 

Chiarezza, esplicazione, eventuale dissuasione, sono i punti che dobbiamo necessariamente toccare se vogliamo svolgere il nostro vero ruolo di Pubblici Ufficiali!!

 

Ricapitolando: l'atto notarile per sua natura (art. 47 L.N.) riporta la comune volontà delle parti. Anche se il testo è unilateralmente predisposto dal professionista, l'intervento del notaio vale a conferire un valore aggiunto sotto un duplice aspetto:

1) quello del reale adeguamento del testo alle norme di legge; 2) quello delle spiegazione approfondita delle clausole al contraente debole-consumatore.

 

Attraverso ciò tutto il contenuto dell'atto pubblico diventa volontà anche del consumatore, il quale sottoscrive clausole che - per definizione - ha concorso a formare: cioè ha trattato (anche se non contrattato).

 

Così avviene che la materia delle clausole abusive diventa, nell'atto pubblico, un falso problema:

1° perchè lo squilibrio economico e normativo non è percepibile dal notaio e comunque può essere voluto dal contraente o può non essere rilevante;

2° perchè l'atto pubblico veicola - per definizione - la volontà di entrambe le parti.

 

Questa ricostruzione sembra dare al Notaio una certa tranquillità: basta leggere l'atto e tutto è a posto!!

 

Ma se ciò va bene al notaio frettoloso, a chi- cioè - non ha compreso quale sia la reale funzione del Notaio P.U., non può andar bene a chi intende non abdicare alla propria funzione.

La lettura meditata, ponderata, spiegata di un atto pubblico di mutuo, può far realmente comprendere al consumatore la portata della sua sottoscrizione.

Solo questa consapevolezza rende l'atto effettivamente voluto ed effettivamente efficace e, al contempo, l'intervento del notaio realmente valido e non senza senso.

 

E' ora, venuto il momento di chiedersi quanto a fondo deve spingersi l'intromissione del singolo notaio per la corretta stesura di un atto di mutuo e per la sua corretta stipula.

 

Il tema è divenuto di particolare attualità perchè, come accennato, il codice del consumo ha modificato il previgente codice civile, statuendo non più la semplice inefficacia ma la nullità delle clausole abusive stesse!

 

Ciò sembra comportare che se il ricevimento di clausole abusive configura la violazione dell'art. 28, l'intervento del notaio deve essere estremamente prudente ed improntato ad un radicale rifiuto di qualsiasi clausola abusiva.

Viceversa, se si appurerà che non vi è spazio di applicazione per l’art. 28 L.N., sarà necessario configurare quale sia il comportamento del pubblico ufficiale più consono alla reale portate del dettato normativo.

 

Iniziando la disamina non può non esprimersi, ancora una volta, il rammarico nell'osservare come il legislatore nazionale abbia dovuto piegare la nostra dottrina, chiara e classica, ai nuovi ibridi principi imposti dal legislatore comunitario.

 

Invece di affermare la supremazia della nostra millenaria cultura giuridica, è stato introdotto nel nostro ordinamento, ancora una volta, un monstrum giuridico, quale la nullità di protezione.

 

Il Santoro Passarelli insegnava, con rigore logico giuridico, che un negozio che intanto è efficace può, in un secondo tempo, cessare di produrre effetto a seguito di una azione giudiziaria, intentata esclusivamente da chi il legislatore aveva voluto tutelare: con ciò chiarendo quale sia il concetto giuridico di annullabilità.

 

Insegnava, altresì, che se un negozio in radice non produce mai effetti, sin dal suo sorgere (situazione rilevabile da chiunque e anche d'ufficio, proprio perchè legata ad interessi generali e di rilevanza pubblica) in tal caso il negozio si definisce nullo!

 

Ebbene, quando a fronte di tale logico insegnamento, si contrappone l'introduzione di categorie illogiche, come la nullità di protezione, il giurista non può non provare un senso di profonda delusione.

 

Nullità: elemento che nella dottrina classica vale a significare una radicale mancanza di effetti, sin dall'origine, proprio per contrapporla all'annullabilità che produce la caducazione successiva degli effetti, seppur con valore ex tunc;

 

Lo stesso termine “nullità” viene, nel campo che oggi trattiamo, utilizzato per far venire meno gli effetti contrattuali che intanto si sono prodotti!.

 

Nullità: concetto che permea di sé un istituto giuridico che, appunto perchè legato a tutela di interessi di base ed appunto perchè, finalizzato a dare certezza ai traffici giuridici, deve essere necessario far valere e rilevare da chiunque, in quanto è necessario sapere che un determinato negozio non ha mai prodotto effetti.

 

Lo stesso termine “nullità” viene utilizzato per esprimere un concetto legato non più ad un interesse generale ma ad un interesse di parte, interesse che può essere fatto valere solo dal consumatore!

Inoltre, costui può anche decidere, non facendolo valere, di far si' che un negozio nullo possa continuare a produrre effetti!!

 

E' evidente, allora, il fatto che sia stata introdotta una categoria giuridica che di logico non ha proprio nulla: la nullità di protezione.

 

Insomma, oggi non c’è più solo un negozio nullo perchè contrario a norme imperative, all'ordine pubblico, al buon costume, ma si postula l'esistenza di un negozio che, intanto produce effetti ma che potenzialmente, in presenza di tutta una serie di circostanze, potrebbe essere posto nel nulla!

 

A tanti potrebbe venire in mente il concetto di annullabilità (piuttosto che di nullità di protezione), ma la diversa disciplina che sorregge l'annullabilità - rispetto alla nullità di protezione - impone di tenere distinti i due istituti giuridici.

 

Sarebbe stato, a mio avviso, opportuno rispettare i classici e - cioè - la logica.

 

Così non è stato.

 

E' stata fatta una forzatura ai concetti logici ed è stata introdotta la categoria di nullità di protezione, che avrebbe necessità di altra definizione terminologica, quantomeno per non contaminare il termine "nullità" con concetti collaterali che con la nullità pura - ed unica - non hanno nulla a che vedere.

 

Ma tant'è, l'istituto esiste e l'interprete e l'operatore di diritto ne deve prendere atto.

 

Ed allora, mentre classicamente avremo:

  1. l'annullabilità;

  2. la nullità e, all'interno di questa, ma pur sempre nella radicale inefficacia delle clausole coinvolte, la nullità parziale (caratterizzata dalla sostituzione automatica delle clausole in radice inefficaci),

oggi si aggiunge, alla detta dicotomia un terzo istituto:

c) la nullità relativa o nullità di protezione.

 

 

La differenza pratica con l'annullabilità sta nel fatto che mentre quest'ultima è posta a tutela di un interesse particolare, di un determinato contraente che voglia - ad esempio - far valere vizi del consenso, la nullità di protezione è, invece, posta a tutela di una intera categoria di soggetti legislativamente previsti, i consumatori.

 

La nullità di protezione non vale (come l’annullabilità) per il singolo in quanto tale, ma solo per il soggetto che agisce per scopi estranei all'attività professionale o imprenditoriale eventualmente svolta, quindi per il consumatore.

 

Un'altra differenza con l’annullabilità consiste nel possibile intervento d'ufficio, previsto nella nullità di protezione (ed escluso nel caso di annullabilità).

Intervento d'ufficio che può avvenire solo a vantaggio della parte favorita e non a suo danno.

 

Occorre ora chiedersi: dato che la nullità di protezione non si identifica né con l’annullabilità né con la nullità assoluta, e dato che l'art. 28 L.N. parla di clausole espressamente proibite dalla legge o contrarie all'ordine pubblico o al buon costume, allorquando il notaio è chiamato ad effettuare il controllo di legalità su un atto, deve rifiutarsi di rogare l’intero atto o deve cercare di epurarlo dalle singole clausole, se queste possono configurare fattispecie sanzionate con la nullità di protezione? E così se queste sono riconosciute come aderenti ai due paradigma legali, di cui alle liste grigia e nera?

 

La risposta dovrebbe essere negativa, e lo dovrebbe essere per tutto quanto si è fin qui detto e cioè:

a) per la peculiare previsione dell'art. 28 che richiama la contrarietà all’ordine pubblico o al buon costume, elementi estranei alla nullità di protezione;

b) per il particolare rinvio che l'art. 28 fa alla contrarietà alla legge che deve essere manifesta e che, pertanto, mal si concilia con le clausole abusive, la cui natura abusività non è mai manifesta.

La clausola, infatti, potrebbe essere perfettamente voluta, oppure potrebbe essere sanzionata come abusiva solo in sede giudiziaria e non contrattuale; la stessa parte protetta potrebbe non volerla rilevare, volendo, invece, rinunciare ad agire in giudizio e trovare più comodo tacere, per evitare che l'intera operazione contrattuale possa essere vanificata, comportando per il consumatore risvolti ancora più negativi rispetto alla stessa clausola abusiva.

 

Essendo, poi, assolutamente necessario contestualizzare la clausola, potenzialmente abusiva, è assolutamente impossibile per il notaio rogante assumere un atteggiamento di netto rifiuto e, pertanto, non operando l'imperativo divieto posto dall'art. 28 L.N., l'atteggiamento del notaio deve essere improntato a prudenza e saggezza non certo, all'opposto, a rigido e - come abbiamo visto – infondato rifiuto, a superficialità e frettolosa conclusione del contratto.

 

Esclusa, quindi, l'operatività dell'art. 28 L.N., quale dovrebbe essere il comportamento pratico del notaio, che ho definito prudente e saggio?

 

A ciò soccorre la giurisprudenza di Cassazione.

 

Secondo la sentenza n. 11128 dell'11/11/1997: "Nell'ipotesi di sussistenza degli estremi per l'annullabilità o inefficacia dell'atto, ma non della nullità assoluta dello stesso, rimane pur sempre a carico del notaio l'obbligo di avvertire le parti dell'esistenza di detto vizio, per quella che è stata definita la funzione "antiprocessuale" del notaio, avente ad oggetto la certezza dei rapporti giuridici, alla cui tutela è essenzialmente preordinata la funzione del notaio: egli, infatti, non è passivo strumento di nuda registrazione delle dichiarazioni delle parti, ma pubblico ufficiale obbligato ad operare perchè non sia turbata la certezza dei rapporti giuridici. Tale funzione ed obbligo del notaio emergono dall'art. 1 della L. n. 89/1913, che individua detta funzione nell'attribuzione della "pubblica fede" agli atti da lui redatti (mentre sarebbe riduttivo, come pure fa parte della dottrina, ritenere che con tale locuzione il legislatore abbia inteso fare riferimento al concetto di pubblica fede di cui all'art. 2699 c.c., tenuto conto del diverso contesto normativo in cui l'espressione è utilizzata). La mancanza di detto avvertimento renderà il notaio sanzionabile a norma dell'art. 136 della legge notarile e cioè con le sanzioni della censura o dell'avvertimento, cioè con quelle sanzioni che non sono comminate per violazioni specificamente indicate, ma genericamente per la mancanza ai propri doveri da parte dei notai (oltre all'eventuale responsabilità civile)”.

 

Abbiamo, ora, gli strumenti per affrontare, nel concreto dei quattro punti controversi da cui siamo partiti:

1) si tratta di affrontare una clausola specifica che potrebbe presentarsi frequentemente e sulla quale intendo offrire una possibile soluzione operativa, e mi riferisco al divieto di estinzione anticipata del mutuo prima di 18 mesi e 1 giorno o alle limitazioni a tale diritto;

2) un'altra clausola, che viene spesso scambiata per clausola abusiva, perché il codice del consumo sembra dettare una rigorosa disciplina, ma che nulla ha a che vedere con la disciplina delle clausole abusive vere e proprie, è quella che contiene la rinuncia del mutuatario ad ottenere l'informazione pre-contrattuale;

3) il presunto contrasto tra alcune disposizioni del codice del consumo con le disposizioni sulla trasparenza bancaria;

4) la cosiddetta clausola di salvezza, definita anche clausola Petrelli.

 

*******

 

La clausola sul diritto all'estinzione anticipata da parte del soggetto finanziato è venuta recentemente in auge a seguito della sentenza Cassazione n. 11155 del 26/5/2005, a cui ha fatto seguito una presa di posizione da parte di alcune Conservatorie, che hanno inteso assoggettare alle ordinarie imposte gli atti di finanziamento privi di una clausola che escluda la possibilità di estinzione nel termine di 18 mesi e un giorno.

 

Si richiede, cioè, che vi sia un espresso divieto all’esercizio di quel diritto.

 

La sentenza della Cassazione e la presa di posizione delle Conservatorie ha, in verità, ribaltato l'esatto quadro normativo.

 

Per sintetizzare, schematicamente vedremo:

a) quale il complessivo dettato normativo in merito;

b) quale la posizione dell'amministrazione finanziaria;

c) quale, in ultimo, la posizione della Cassazione, con l'errore di valutazione commesso.

 

Esaminato tutto ciò potremo veramente valutare se si tratta di clausola abusiva o meno, e quale possa o debba essere il comportamento del notaio chiamato a stipulare un mutuo contenente la clausola in oggetto.

 

Il quadro normativo.

Secondo l'art. 15 del D.P.R. 601/72, godono di imposta sostitutiva i contratti di finanziamento a medio e lungo termine.

Contratti, cioè, la cui previsione di durata minima è prevista in almeno 18 mesi.

 

Secondo l'art. 40 del T.U.B. (D. Lgs. 385/1993) “i debitori hanno facoltà di estinguere anticipatamente, in tutto o in parte, il proprio debito........(!) I contratti indicano le modalità di calcolo del compenso secondo i criteri stabiliti dal CICR, al solo fine di garantire la trasparenza delle condizioni.”

 

Vi è, quindi, un diritto spettante al finanziato (ed il discorso vale sia per i mutui fondiari, che per i mutui onerosi, che per i contratti di c/c ipotecario che per qualsiasi altro contratto di finanziamento posto in essere da istituti di credito), diritto statuito da una norma civilistica a tutela del debitore.

 

Il taglio della norma è di carattere imperativo.

E’ posto a tutela di un interesse generale e, pertanto, non può essere modificato nè ristretto nei suoi contenuti e nelle modalità di esercizio, da alcuna pattuizione negoziale.

 

L'art. 40 impone che nei contratti vengono necessariamente evidenziate le modalità di calcolo del compenso omnicomprensivo, ed il tenore della norma esclude la possibilità che l'esercizio di tale diritto possa essere regolamentato, compresso o addirittura vanificato.

 

Oltre al divieto, infatti, dobbiamo persare alle varie ipotesi di regolamentazione del diritto. E' frequente, ad esempio, la clausola secondo la quale l'estinzione anticipata parziale può avvenire solo se il suo ammontare raggiunga un ammontare minimo, ovvero che possa essere esercitato solo in alcuni giorni del mese e non in altri.

 

Questo tipo di regolamentazione, se pur giustificata da esigenze operative degli istituti, quando comprime eccessivamente il diritto all'estinzione anticipata parziale, si traduce, al pari del divieto, in vera e propria norma contraria alla legge, ossia al dettato di cui all'art. 40 T.U.B..

 

Si pensi, ad esempio, a divieti di estinzione nei primi quindici giorni del mese e negli ultimi dieci giorni dello stesso, con ciò riducendo a soli 5 giorni del mese la possibilità di estinzione;

si pensi, ancora, a preavvisi tanto lunghi da rendere il diritto di estinzione anticipata quasi l’esercizio di una facoltà legata a capacità paranormali, piuttosto che a valutazioni economiche di breve durata da parte del debitore, come invece è giusto che sia;

si pensi, infine, a divieti di estinzione parziale legati a cifre talmente alte da rendere praticamente impossibile l'estinzione anticipata stessa, riconducendo il tutto ad una vera e propria estinzione totale.

 

In tutti questi esempi, richiamando pure i principi del negozio in frode alla legge, non può non ravvisarsi un tale appesantimento del diritto all'estinzione anticipata, tale da equipararlo al divieto di estinzione.

 

L’errore della Cassazione.

Ora, il divieto di estinzione o la sua pesante regolamentazione è ammissibile e addirittura dovutò? O è contra legem?

Sembrerebbe che la Cassazione abbia statuito che il diritto all'estinzione anticipata sia fuori discussione ma che, qualora ciò avvenga prima dei 18 mesi e 1 giorno, non si abbia più il diritto a mantenere l'agevolazione fiscale prevista dall'art. 15 del DPR 601.

Infatti dice: "ciò viene a privare l'operazione della necessaria caratteristica temporale richiesta dalla disposizione agevolatrice".

Pertanto un divieto o una pesante regolamentazione sono senza dubbio, contra legem e da non ricevere.

 

Resta il problema fiscale.

 

Ma dopo quello che prima si è detto, illustrando il “quadro nominativo” di fondo, non può non rilevarsi l'errore in cui è caduta la Suprema Corte, che ha affermato la decadenza dai benefici.

Anzitutto ha confuso (ed ha posto sullo stesso piano) il diritto di recesso del mutuatario (consumatore) con il diritto di recesso, ad nutum, esercitatile dalla parte mutuante.

Se pure si possono condividere le motivazioni della Suprema Corte su questo ultimo punto, chiaramente dobbiamo concentrare l’attenzione sul diritto di recesso dato al consumatore.

Ed allora si può affermare:

  1. vi è compatibilità tra la norma fiscale ed il diritto di recesso del mutuatario, in quanto tale diritto è stabilito dalla legge e non dal contratto;

  2. il diritto di recesso ex art. 40 è una facoltà irrinunciabile da parte del debitore, e non è prevista alcuna durata minima;

  3. la stessa Amministrazione Finanziaria ha chiarito ripetutamente che ciò che assume rilievo è la circostanza che la previsione di durata del rapporto, nel momento in cui il rapporto sorge, sia superiore a quella minima stabilita dalla legge, non rilevando possibili vicende o eventi successivi al rapporto;

  4. non è possibile ritenere che il legislatore fiscale (che è del 1972) abbia voluto sottrarre il contratto, regolamentato secondo la norma del legislatore civile (che è del 1993), alla disciplina agevolativa ed anzi deve pensarsi il contrario…… che, cioè, il legislatore civile (successivo), quando ha regolamentato il diritto di recesso, non ha ritenuto di stabilire alcuna eccezione nè alcuna limitazione temporale o di altro genere, volendo così confermare quanto già in quel tempo vigente, e così anche la normativa fiscale di favore, nel pieno della sua previsione e senza eccezioni di sorta.

 

Se, quindi, vi fosse quell’aggravio del carico tributario voluto dalla Corte, si finirebbe, inevitabilmente, per limitare l'esercizio del diritto di recesso o di estinzione anticipata, diritto che, invece, la Corte non ha affatto inteso precludere o limitare.

 

 

Esaminando, ora, le varianti che si possono realizzare quando il diritto all’estinzione anticipata, viene semplicemente regolamentato ma senza particolari appesantimenti.

Avremo, anche in tal caso, limitazioni temporali o di importo, o di fatti, ma tali da non precludere del tutto il diritto di recesso, ma solo di ben regolamentarlo.

 

Giustificate dal fatto che le modalità operative degli istituti non consentirebbero frequenti ed irrisorie richieste di estinzione anticipata parziale, queste varianti, teoricamente ammissibili poiché non rientranti né nel divieto né in assurde compressioni del diritto, potrebbero comunque rientrare nel campo delle clausole abusive se dovessero finire per alterare l'equilibrio contrattuale e se non sono state oggetto di trattativa (meglio = di trattazione – ma, come abbiamo visto, nei mutui per atto pubblico ciò è fuori discussione).

 

E qui sorge per il notaio l'obbligo di informativa, di esercizio dei propri doveri al meglio, pena la responsabilità disciplinare ex art. 136 L.N. oppure la sua responsabilità civile.

 

Ricapitolando:

regolamentazione che sembra ammissibile: clausole valide o, al più, abusive, con obbligo del notaio di esercitare correttamente la funzione consultiva.

Regolamentazione che sembra, ictu oculi, inammissibile o addirittura divieto: allora si fuoriesce dal novero delle clausole abusive e si rientra in quello delle norme contrarie alla legge, con conseguente nullità parziale della clausola, mantenimento del contratto, e sostituite dalla clausola invalida con il paradigma legale.

 

E trattandosi di nullità parziale, il notaio, anche questa volta, è tenuto ai soli doveri di informazione, ed è chiamato a dare ampio risalto alla clausola nulla, rilevabile d'ufficio, con il necessario tentativo di fare epurare il contratto da quella clausola contra legem.

Ma di fronte al rifiuto dell'istituto e di fronte alla richiesta dei clienti di voler comunque stipulare, e tenuto conto del fatto che l'art. 28 sembra inapplicabile alle ipotesi di nullità parziale, in quanto verrebbe a prelevare il paradigma legale, e tenuto, pure, conto dell'obbligo di prestare il proprio ministero (ex art. 27 L.N.), il notaio non potrebbe fare altro che andare avanti ma informando e sottolineando che il quadro contrattuale può essere ribaltato di fatto dal mutuatario il quale avrà comunque il diritto di recedere in qualsiasi momento, per qualsiasi importo, tutte le volte che vuole e senza dover corrispondere alcuna imposta integrativa in luogo di quella sostitutiva.

 

La circostanza che il notaio rogante si è soffermato sul punto controverso, con la dovuta accuratezza, potrà essere comprovata in un documento a latere, che si potrebbe definire: " di incarico professionale", con il quale si definiscono con precisione i confini del mandato professionale ricevuto.

 

 

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Altra clausola che è stata fonte di dubbi per il sottoscritto è quella in qualche modo legata sia al dettato dell'art. 143 del codice del consumo che al disposto dell’art.36 comma 3 stesso codice.

 

Il primo recita: "i diritti attribuiti al consumatore dal codice del consumo sono irrinunciabili";

il secondo (art. 36 comma 3° lett. 3) impedisce di prevedere l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto.

 

Orbene, tale quadro normativo ha fatto ritenere ad alcuni che la clausola inserita nei mutui, peraltro conforme al punto 7 della direttiva della Banca d’Italia del 27/7/2003, clausola così congegnata: “Il mutuatario dichiara di non essersi avvalso della facoltà di ottenere dalla banca, prima della stipula, copia integrale del presente contratto", dovesse essere cambiata in senso affermativo, non potendo, il mutuatario, rinunciare a tale diritto.

 

A me sembra che non sia così.

 

Se riflettiamo sul contenuto della clausola vedremo che non si tratta di una clausola con cui si esprime la volontà di aderire a clausole che prima non ha avuto modo di conoscere. Non si tratta neppure di una violazione del divieto ex art. 143, cioè di una rinuncia al diritto.

A ben vedere non è neppure una clausola negoziale in senso stretto: non disciplina, cioè, alcun diritto, non contempera alcun contrapposto interesse.

 

E' quasi, solo, una verbalizzazione, una constatazione di fatto che, se ben utilizzata in sede processuale, può pure essere d'aiuto al mutuatario, se riesce a dimostrare:

  1. che quanto sancito corrisponde a realtà: (non mi sono avvalso);

  2. ma che ciò fu pure necessità (perchè non ho potuto avvalermene!).

 

Pertanto, la norma secondo cui i diritti attribuiti al consumatore sono irrinunciabili, che si traduce nel portare a ritenere che gli articoli da 33 a 38 del codice del consumo siano norme imperative, è perfettamente rispettata pur in presenza di una disposizione che sta a fotografare un dato di fatto: il mutuatario (volente o nolente) non si è avvalso del diritto di ottenere l'informazione precontrattuale.

 

Diverso sarebbe se il contratto contenesse una clausola del tipo: "Il mutuatario conviene e riconosce di accettare le clausole contenute nel capitolato allegato al presente atto, nonostante non abbia avuto modo di conoscerle prima d'oggi, rinunciando a qualsiasi azione giudiziaria in merito".

 

Questa sarebbe una reale rinuncia contrattuale ai propri diritti che, invece, e come è invece espressamente sancito, non sono disponibili.

 

Una tale clausola sarebbe veramente colpita da nullità e, non sussistendo alcun paradigma legale sostitutivo, si avrebbe non già una nullità di protezione (quindi non sarebbe una clausola abusiva); neppure sarebbe nullità parziale (non rilevante ex art. 28); sarebbe, invece, nullità assoluta, con piena applicazione dall'art. 28 L..N.

 

In definitiva, con le disposizioni richiamate, si deve affermare che la legge non tutela il consumatore che non ha voluto conoscere le clausole che avrebbe potuto conoscere, bensì tutela il consumatore che si pretende vincolato a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere.

La clausola in discussione, così come formulata abitualmente, aiuta l'accertamento dei fatti, in quell'ottica di tutela giudiziaria che, come abbiano visto, è quella prescelta dal legislatore.

 

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Un altro punto interessante è il presunto contrasto tra la disciplina contenuta nell'art. 117 T.U.B. (cosiddetto jus variandi), confermata nella sezione terza, punto 3, della direttiva della Banca d'Italia e, dall'altra parte, la diversa disciplina che emerge dall'art. 33 del codice del consumo sul medesimo diritto.

 

Le discipline sono senza dubbio diverse. Ma occorre chiedersi se sono contrastanti. Se, in modo particolare, il uovo codice del consumo abbia tacitamente abrogato, in quanto norma successiva, la possibilità dello jus variandi prevista dalla norma precedente.

 

Secondo il T.U.B. (e la conseguente fonte regolamentare proveniente dalla B. Italia) vi è la possibilità di variare, in senso sfavorevole al cliente, il tasso di interesse e ogni altro prezzo o condizione, e ciò deve esser approvato specificatamente nel contratto stesso dal cliente.

 

Secondo la disciplina dell'art. 33, invece, non è consentito al professionista modificare unilateralmente le clausole del contratto, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso.

 

Orbene, la clausola che contempla lo jus variandi è presente in tutti i mutui stipulati.

 

Prima di una attenta riflessione questa era, per me, fonte di preoccupazione.

 

La presenza dell'ignoto inquieta sempre.

 

Era fonte di perplessità il riconoscere che la normativa, già contenuta nell'art. 1469 bis c.c. (oggi 33 codice del consumo) era successiva rispetto a quella dell'art. 117 T.U.B.

Pertanto, l'introduzione della novella al c.c. (quando la tutela del consumatore era contenuta all’interno del detto codice) avrebbe potuto comportare la corrispondente, implicita, abrogazione delle disposizioni difformi del T.U.B.

 

Ma vi è reale difformità tra le due norme?

 

Se esaminiamo la seconda, in ordine di tempo, ossia quella di cui all'art. 1469 bis c.c. (identica a quella ora contenuta nell'art. 33 codice del consumo) vedremo come, in linea di principio, non sia affatto vietato uno jur variandi in capo al professionista.

Quindi, attenzione: non è statuito un divieto! L’art. 33 non vieta di modificare il contratto! Ma vieta di modificarlo senza un giustificato motivo.

Ossia, letta in positivo, la norma concede il diritto di variare, in presenza di giustificato motivo.

 

Tale diritto è, dunque, riconosciuto, sia dall’art. 33 codice del consumo che dall'art. 117 T.U.B.

 

Le due disposizioni sembrano integrarsi vicendevolmente e così, senza contraddirsi, si può dire che possa coesistere una contemporanea applicazione di entrambe le disposizioni.

 

Mentre, infatti, l'art. 33 del codice del consumo non prevede per il mutuatario, la facoltà di recesso alle medesime condizioni precedentemente applicate, tale diritto è invece riconosciuto dall'art. 117 T.U.B.

Ed ancora, mentre quest'ultimo non prevede alcuna condizione - se non l'approvazione espressa in contratto – l’art. 33 del codice del consumo, oltre all’approvazione, prevede anche che lo jus variandi sia legato ad un giustificato motivo, indicato in contratto.

E così la tutela del consumatore assume una valenza globale e maggiore, poichè la contemporanea applicazione delle due norme, contenute nelle due diverse leggi, non contraddicendosi ma integrandosi, forniscono al consumatore-mutuatario forme di tutela integrali anzichè parziali.

 

Orbene, nella clausola che qui si commenta sono contenuti tutti gli elementi voluti dalle due fonti normative, ivi compreso il giustificato motivo, che può rilevarsi nel rinvio, fatto contrattualmente, alla intera durata della vita del mutuo che, essendo pluriennale, giustifica la variazione delle spese accessorie e amministrative nel corso della durata del mutuo stesso, in armonia con il mutamento delle condizioni economiche di mercato.........per loro natura non immutabili!

 

Non dimentichiamo, infine, che l'art. 33 non vieta ma concede, regolamentandolo, lo jus variandi, in generale, in relazione a:

clausole contrattuali;

caratteristiche del prodotto;

caratteristiche del servizio.

Noi stiamo, invece, discutendo di una clausola che prevede, in particolare, lo jus variandi delle spese amministrative ed accessorie al mutuo, che ben possono giustificarsi in relazione alle mutate condizioni economiche di mercato, nell'arco di un contratto pluriennale. E tale trattazione del particolare, sta a convalidarne l’ammissibilità, stante la concreta possibilità, da parte del consumatore, di poter valutare l’esatta portata della clausola e quindi sia di accettarla che di controllarne i futuri effetti pratici.

 

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E veniamo all'ultimo punto, quello della cosiddetta "clausola Petrelli".

 

Il valente collega suggerì di inserire che, nell'attesa di un confronto ABI-CNN, si sarebbe potuto utilmente inserire una clausola tipo: "Sono fatte salvi le disposizioni inderogabili del D. Lgs 6/9/2005 n. 206; non producono effetto, pertanto, le clausole del presente contratto e relativi allegati che possono essere ritenute in contrasto con la suddetta disciplina.”

 

Questa clausola ha ottenuto tanto riscontro nella categoria ed ha avuto una tale risonanza da essere stata adottata da quasi tutti gli istituti, al punto tale che è stata fatta propria dagli istituti stessi e che risulta, ora, difficile da eliminare, una volta verificata la neutralità della stessa.

 

Che tipo di valore dare a tale clausola?

Non certo di salvaguardia per il notaio, che continuerà ad essere comunque soggetto a responsabilità disciplinare ex art. 136 L.N. o a responsabilità civile.

Non certo a far valere le disposizioni di legge su quelle contrattuali perchè ciò, ove si tratti di norme imperative, è già una conseguenza della legge stessa e non un frutto della volontà delle parti.

Neppure vale a far considerare inefficaci le clausole abusive, in quanto, per la declaratoria di nullità delle stesse è necessario esperire con successo una azione di parte (o d'ufficio), trattandosi - come si è visto - di nullità di protezione.

 

Ed allora?

 

Sulla spinta dell'ignoto, nel pieno della confusione normativa, si è tentato, nell’immediato, di ottenere una sorta di "coperta di LINUS", un qualcosa che avesse potuto donare tranquillità e che fosse, allo stesso tempo, tanto naturale da essere...inutile.

Tanto lapalissiano da essere accettato dagli istituti, senza batter ciglio.

 

Chi può negare, infatti, che quanto disciplinato dal codice del consumo prevalga, sia che la clausola in questione vi sia sia che non vi sia affatto?

Chi può dire che non sia vero che le clausole imperative (del codice del consumo o di qualsiasi altra norma) non abbiano a prevalere su clausole contrattuali difformi?

 

Ed allora, visto che si tratta di una clausola sostanzialmente neutra, visto che – anzi - potrebbe sembrare solo una clausola di salvaguardia generica per il notaio, sarebbe bene tentare di farla eliminare da ogni testo ma, laddove non vi si riesca, stante la sua assoluta neutralità, la sua permanenza potrà al più essere inattuale, non più legata ad un grado confuso di comprensione di un nuovo istituto giuridico, ma del tutto improduttiva di effetti: sia di tutela del consumatore (già tutelato dalla legge e non dalle clausola), sia di tutela del notaio, in quanto costui è sempre responsabile civilmente del corretto esercizio della funzione di adeguamento e della funzione consultiva, funzioni, entrambe, che la clausola in questione non mira, certo, a far abdicare.

 


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